Vite da espositori
Il primo degli articoli di questa nuova rubrica dedicata a Chiacchiere&Distintivo, il vecchio giornalino di quartiere, in un certo senso era quasi scontato: vista la coincidenza con le partite del ‘Memorial Galanti‘, impossibile non ricordare uno degli spazi che a suo tempo dedicammo proprio al nostro piccolo grande uomo, Tonino.
Dopo aver iniziato con qualcosa di piuttosto goliardico, eravamo però alla ricerca di un racconto che potesse rappresentare anche l’altra anima di C&D, quella più prettamente prosaica.
Scorrendo i fascicoli, ad un certo punto la nostra attenzione è stata attirata da qualcosa di imprevisto: ebbene si, l’articolo che vi proponiamo oggi non ce lo ricordavamo proprio più!
Lo scritto è infatti particolare per almeno due buoni motivi:
- è frutto di un lavoro ‘a quattro mani’, ovvero di una collaborazione fra autori diversi;
- il personaggio che appare a un certo punto del racconto (“una figura con un cappellino beige ed un buffo gilet arancione”) è lo stesso: Toni! Questo in realtà non viene esplicitato in nessun punto dell’articolo, e sono sicuro che, all’epoca, non tutti compresero.
Dal numero 2 di Chiacchiere & Distintivo, pagina 3:
VITE DA ESPOSITORI
Un semplice battito di ciglia, per altri è tutta la vita…
Stravaccati sui sedili a prendere il sole, vicini. Il paesaggio cambiava continuamente, una soffusa musica ci arrivava senza disturbare. Ogni tanto confrontavamo i nostri dati, i colori del nostro futuro; la ventilazione proveniva dalle bocchette dell’aria ma anche dai finestrini aperti.
Ci eravamo visti per la prima volta dieci giorni prima, quando eri appena arrivato in azienda, e da quel momento non ci eravamo separati un attimo, senza sentire un obbligo ma una condizione ottimale, una scontata normalità anche nel condividere una giornata di lavoro.
L’aria si muoveva un po’, ma non ci dava fastidio. Lentamente la brezza calò, e rimase solo quella forzata; nei momenti di silenzio, solo il rumore della ventola calamitava la nostra attenzione.
Ora la vettura era di nuovo ferma, ma tenevi il motore acceso, e continuavamo a prendere il sole. Avvicinandosi agli ingressi il traffico era decisamente aumentato, i mezzi pesanti mettevano in luce la limitata organizzazione del traffico veicolare, e i vigili limitavano i danni con l’autorità spettantegli dalla divisa; attendevamo il nostro turno in fila, sotto quelle case e le vite di chi le abitava.
La radio aiutava a farci sentire in una diversa realtà d’odori e sapori, la giornata rimase sempre bella ma con il sole un po’ coperto dalle nuvole e dalla fila d’auto che si prolungava nei miei pensieri.
La gente che voleva entrare s’accumulava, mentre avanzavamo a scatti, per brevi tratti. I tempi d’attesa erano estremamente diluiti, i parcheggi erano come vasi colmi di ghiaccio secco, così la gente appena poteva sfumava all’interno, in fuga dalla nube di scarichi.
Parlavamo di viaggi, di mare, di un’estate passata troppo in fretta e che ora sembrava ritornare.
Strappo dopo strappo, giungemmo in uno spiazzo che s’andava allargando, sotto una specie di totem colorato: qui la corsa del vento arrivava continua e decisa, sotto il ricomparso sole che scaldava e spremeva sudore, subito deterso dalla forza del vento.
“Guarda che tipo!” mi dicesti, ed io guardai: una figura con un cappellino beige ed un buffo gilet arancione si scorgeva fra le auto, le moto e i torpedoni, visibilmente indaffarato.
Si chinava, gesticolava, ed invariabilmente dopo qualche secondo il mezzo, con una manovra, tornava da dove era venuto; raramente proseguiva la sua marcia.
Ci vide, ed accennò una specie di stanco sorriso; con un gesto fermò la fila delle macchine arrembanti che si era formata alla nostra destra, bloccò con uno sguardo le petulanti richieste di un nugolo di pedoni scesi da un pulman austriaco, fendette il cordone compatto dei giocatori di carte e venditori di hot-dog, scansò una zingara con bimbo attaccato al seno, e ritornò; ci diede un’ occhiata attenta ed esperta, con mano gentile controllò quel rettangolino di cartone plasticato che gli tendevi, ci guardò di nuovo, e finalmente il sorriso si fece più rassicurante, mentre le sue dita si tendevano su quei pulsanti neri.
D’un tratto la sbarra si alzò, e superammo l’omino, tra le ondate di invidia e malanimo dei respinti.
Fu proprio allora, mentre stavamo per passare sotto uno strano tunnel, che mi sentii come osservata, e d’impulso tornai a girarmi: era ancora immobile, girato verso di noi, e agitava lentamente una mano, in un saluto che sembrava insieme un augurio, una benedizione, un modo per scacciare i fantasmi che ci circondavano. Sembrava dirci: continuate così ragazzi, andate avanti e non preoccupatevi, io rimango alla sbarra a guardarvi le spalle, a tener fuori tutti i cattivi.
Solo lo strano pensiero di un attimo, poi il tuo “Beh, ti sei incantata?” mi scosse; il tunnel ci inghiottì e proseguimmo la corsa, dritti verso il parcheggio 4.
29 maggio 2010 alle 23:39
Già, come passa il tempo, mi sembra ne sia passato tanto … bella rievocazione !
30 maggio 2010 alle 02:45
Si! bello spezzato malinconico e scritto bene.
Dove si rivive momenti di viabilità, se anche è stato scritto tempo fà è attualissimo, io stessa vivo alcuni di questi momenti.
La cosa strana è che questo tipo di mansione è bistrattata da tanti e non ne ho mai capito la ragione; a me piace, se lo si fa come andrebbe fatto.
Analizziamo: questo lavoro non consiste nell’aprire una sbarra di ferro, per chi non lo avesse capito e ce ne sono parecchi.
Siamo il primo contatto con l’utente a cui diamo le prime indicazioni sul come e dove proseguire, informazioni di ogni tipo, sta alla gentilezza, alla cordialità nel darle, se poi il tutto è accompagnato da un sorriso, si può dire che l’utente si sente tranquillizzato e sicuro che oltrepassando quella sbarra, così detestata da molti avrà il servizio e la competenza che si deve.
Non per essere polemica ma per capirne le ragioni.
In questi anni ho cercato un “perchè” alcuni colleghi si sentano demotivati nello svolgere tale mansione, e del perchè altri, abbiano la convinzione che sia degradante o demenziale stare lì ad alzare una sbarra, forse non hanno mai capito che non basta alzare la stanga ma l’essere, la persona, sembra invece che chi fa questo lavoro non abbia l’intelletto per fare altro o non sappia fare altro.
Mi vengono in mente altre mansioni, visto che ne faccio varie, prendiamo ad esempio la mansione di Controllo: ditemi che c’è di gratificante nel dire al migliaio di persone che ti passano davanti: codice a barre in alto, aprire o chiudere i padiglioni,controllare le corsie, dov’è la gratificazione e l’intelletto? c’è più professionalità? ma di mansioni ne potrei citare altre.
Forse qualcuno dovrebbe scendere giù dal pero?
Certo sta ad ognuno rendere colorato ciò che è in bianconero: non è ciò che fai, ma come lo fai!
Tonino ne è stato un esempio, mi è stato raccontato che quando ha fatto il passaggio da viabilità a controllo lui andava fuori e controllava anche la viabilità fuori dal padiglione perchè era più forte di lui l’esigenza del contatto umano con le persone.
Quale era il parcheggio 4?
Ciao